Recensioni

Pubblichiamo le recensioni ai volumi finalisti dell’edizione 2023, redatte dal gruppo dei soci-lettori – detti Ghost Readers – che selezionano i libri per l’Appello tra quelli giunti in finale ai maggiori premi letterari italiani.

Il gruppo è composto da Nella Baldi, Simona Baronchelli, Emanuela Gardenghi, Rosella Gerbi, Massimo Maffei e Anna Maria Migliarini.

“[…] lo amavo, l’ho incontrato, lui vuole che lo chiami e io rispondo alla chiamata, sì, ecco la vera vocazione, ecco finalmente il segno, il dono giusto per me. Alessandro ti vedo o ti immagino? Esisti? ” […]

“No, amarla mai, […] quella bruttona, quella stupida, quella che lo sanno tutti che ha i soldi sotto il materasso. […] io voglio i soldi e scappare, tu vuoi l’amore come l’hai visto nei filmetti e nei romanzetti […]

Centomilioni scritto tutto di seguito, sì, centomilioni, un sacco di soldi. Eccoli i risparmi della famiglia di Teresa, quelli che fanno gola al bell’Alessandro, allievo ripetente della scuola in cui insegna la protagonista del romanzo.

Teresa ha 47 anni e nulla sa della vita, al punto da scambiare la violenza per amore. Vive ancora in famiglia in una cittadina di provincia con un padre malato e una madre dispotica, logorroica e controllante. In mente non ha che un brusio mentre obbedisce alle indicazioni della madre tenendo insieme il suo mondo come può, seguendo tristi e rigidi rituali quotidiani che la salvano dall’andare in pezzi.

Solo 140 pagine per un lungo racconto dove la tensione narrativa resta alta fino alla fine ed i personaggi sono descritti magistralmente. La prosa dell’autrice è cruda ma ricercata e tagliente, in alcuni momenti – paradossalmente – addirittura umoristica. Con una scrittura spiazzante, feroce ed ironica la Cai rende esplosiva l’ineffabile bellezza della piattezza della vita, qualcuno vi riconoscerà un recente fatto di cronaca.

“Misterioso viaggio, a tappe dolorose, di creature avventurose, luminose e deformi, ripercorre il più importante evento della storia per credenti e non credenti. La rivisitazione in chiave drammatica di quanto di più sacro ci sia nella storia del Cristianesimo ha richiesto un grande coraggio e un forte coinvolgimento da parte dell’autore. Per i lettori le storie narrate diventano sempre più coinvolgenti, si fanno denuncia sociale, inchiesta antropologica e ricerca nel mistero profondo della vita e della morte.

Il romanzo si trasforma in una favola macabro/drammatica, come quelle che si raccontavano ai bambini, durante le veglie contadine, quando donne, uomini, giovani, anziani, prima di andare a letto si ritrovavano nelle stalle, per stare al caldo, ricordare, raccontare storie, lavorare. Così, come i vari personaggi del libro, ognuno faceva la sua parte e arricchiva la serata. I protagonisti dei dieci capitoli (da “Il bambino buono” a “L’uomo cattivo”) parlano dell’umanità illuminata dalla Nascita – annunciata dalle doglie e attesa dal creato – che avverte quanto sia incontrollabile e necessaria quella novità che nasce e vive nel dolore e non si può ignorare con tappi di cera messi alle orecchie per non essere tentati dalla pietà.
Riflettere sugli argomenti proposti dalla lettura può aiutare a vivere meglio i difficili attuali momenti della nostra storia. E se non avessimo negato, spergiurato, offeso, torturato e ucciso, nessuna profezia della Nascita e della Morte si sarebbe svelata e compiuta.

“Anche il suono dell’acqua somiglia all’ultima preghiera che esce dalla bocca di Lucia. A lei pensaci tu, Madonna mia. È innocente.”
L’ultimo pensiero di Lucia, nell’estremo gesto, è per lei, Maria Grazia, la figlia che l’Italia degli anni ‘60, soffocata da leggi medioevali, l’ha obbligata ad abbandonare. Lucia, madre di Maria Grazia, è costretta a subire umiliazioni e violenze da parte del marito, dal quale fugge con il suo vero amore, portando con sé la figlia piccola.

Dove non mi hai portata è una toccante autobiografia che esplora i motivi e le circostanze dell’abbandono dell’autrice quando aveva appena 8 mesi. Attraverso una ricerca accurata, la scrittrice si immerge nel passato, cercando prima risposte tra le persone che conoscevano i suoi genitori e nei luoghi dove Lucia aveva vissuto, amato, sperato di vivere una vita felice; poi analizzando documenti e articoli per poter inserire la vicenda nella storia dell’Italia di quell’epoca.

Maria Grazia Calandrone condivide questa storia intima in modo lucido, tagliente e talvolta poetico. Coinvolge emotivamente chi legge, guidandolo a riflettere sulla complessità delle relazioni familiari e delle decisioni prese in situazioni estreme. La sua scrittura è a volte pura poesia, a volte cinico e freddo racconto, e questo dualismo impegna profondamente il lettore, senza lasciargli scampo.
Alla fine, la storia ricostruita è una testimonianza di desiderio di conoscenza, mai di giudizio o accusa, e sembra portare sollievo e riscatto nei confronti della madre: “Scrivo questo libro perché mia madre diventi reale”. Così l’autrice può finalmente riprendere la sua vita, portando con sé una comprensione profonda delle sue origini e delle difficoltà che la sua famiglia ha dovuto affrontare.
Dove non mi hai portata è un’opera emotiva, intima e profondamente umana che getta luce su temi universali come l’amore, la famiglia, la perdita e la ricerca della propria identità.

“Da qui molti professori sono scappati dopo una settimana, lo sa?” Così l’ha accolta il bidello mentre l’accompagnava in classe il primo giorno. All’insegnante era già arrivata la cattiva fama della 5a, ma adesso ne è terrorizzata: ha paura di non farcela.
Ha accettato una supplenza annuale in una scuola di periferia, ma è una Roma che non è la sua, è un’altra città e lei la esplora camminando, perché camminare la aiuta a pensare. Il suo compito è insegnare l’inglese a ragazzi che non parlano nemmeno l’italiano e, per prima cosa, sa che deve costruire un ponte, un collegamento tra lei e i suoi allievi. Dopo i primi secondi in cui la osservano ignorandola, è con la lingua del cuore, il dialetto, che la PRESSORÈ riesce a farsi finalmente vedere ed ascoltare, fino a essere considerata come “una di loro”.

Dietro gli atteggiamenti spocchiosi, provocatori o semplicemente menefreghisti, i suoi ragazzi nascondono fragilità, insicurezze e la paura del domani. A un certo punto lei diventa il collante di queste esistenze difficili: non sono più ragazzi, ma non sono ancora adulti. Sono loro i veri protagonisti di questa storia: duri eppure sensibili, violenti e spietati, già feriti dalla vita, eppure così bisognosi di attenzioni, di qualcuno che li guardi negli occhi per chiedere “come stai?” e sappia ascoltare la risposta.

Questi ragazzi hanno trovato lei, un’insegnante colta, che ama la letteratura inglese e vorrebbe farla amare anche a loro. Ma lei fa di più: si porta il lavoro a casa, si lascia coinvolgere fino a diventare vulnerabile, perché prende la missione sul personale. Vuole salvarli tutti.

Gaja Cenciarelli racconta il difficile mondo della scuola dalla parte di chi è in prima linea, affrontando i problemi delle realtà più complesse, dove un insegnante può fare la differenza tra chi riesce a salvarsi e chi non ce la farà.

“[…] il Re della Memoria è la salvezza degli uomini, il modo per non impazzire. Quando uno di noi non riesce a liberarsi di un ricordo brutto, va dal Re della memoria e gli chiede gentilmente di caricarsi lui quel ricordo sulle spalle. Da quel giorno, se ti darà la sua benedizione, tu non ci penserai più.”

Massimo Cotto esordisce nell’affollato mondo del noir con il suo primo romanzo di genere. Torbido e ambiguo, nel corso della narrazione diventa romanzo psicologico: i protagonisti rivivono un dramma della loro infanzia che ha segnato per sempre le loro vite. A soccorrere e confortare i personaggi, e insieme il lettore, è la leggenda del Re della Memoria che, pregna di significato, concede speranza, allevia i ricordi negativi e assume un ruolo salvifico. Ci ricorda che a ognuno di noi è data la possibilità di generare il proprio futuro partendo dal presente, imparando a convivere con esso.

La narrazione alterna con maestria attimi di redenzione e salvezza a momenti bui e alla riapertura di vecchie ferite dolorose. La trama è intricata, il ritmo incalzante, la scrittura rapida e precisa nel descrivere ambienti e situazioni, i dialoghi serrati e mai ridondanti.
Durante la lettura si riflette sul rapporto tra genitori e figli, sulle dinamiche familiari che troppo spesso si ripetono nei rapporti di coppia, e sull’impatto che hanno nelle nostre vite, ripresentandosi sotto forma di traumi, ricordi e rimozioni.

Federica De Paolis ci trascina in uno dei drammi familiari più angoscianti: la perdita, o meglio lo smarrimento, di un bambino. L’autrice cattura l’attenzione dall’inizio alla fine senza concedere un attimo di respiro. Insieme a Viola e Paolo ci muoviamo vorticosamente sulla giostra di eventi concentrati in sei convulse ore uggiose, in un quartiere romano nato da grandi ambizioni poi disattese, destino comune a molti villaggi olimpici italiani. La narrazione sembra quasi rispettare le tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione: il tempo atmosferico e l’ambiente, grigi e privi di speranza, riflettono l’animo dei protagonisti e il loro rapporto, ormai logoro e segnato dagli eventi.

Un attimo, una distrazione fatale ma non casuale, frutto di altre distrazioni accumulate nel tempo. Distrazione è quella che ha allontanato Paolo e Viola. Distrazione è l’incidente terribile di Viola, da cui riemerge intatta nel corpo ma provata nella mente, costretta a difendersi creando un mondo virtuale in cui ricordi e persino sapori vengono cancellati, sostituiti da nuove realtà. Distrazione è l’allontanarsi di Paolo, soffocato dal lavoro, risucchiato nel mondo della corruzione, degli appalti e del potere. Distrazione come separazione, come progressivo allontanarsi da sé stessi e dagli altri.

Federica De Paolis esplora con profondità, ma senza appesantire, la psiche dei personaggi, affrontando temi complessi e universali. Il ritmo della narrazione segue l’incalzare degli eventi, travolgendo il lettore fino a un finale sorprendente e inaspettato.

Con il giallo La vita paga il sabato, Davide Longo ci prende per mano sin dalle prime pagine e ci lascia, alla fine del libro, con il desiderio intenso di continuare a seguire la vita dei suoi protagonisti.

In un piccolo paese di montagna viene ritrovato un cadavere in un’auto: troppe domande restano senza risposta, in un contesto delicato per il calibro dei personaggi coinvolti, simili a fili dell’alta tensione da maneggiare con cura. A investigare è il commissario Arcadipane, uomo di mezz’età segnato dal tempo e dalla vita, che ben presto comprende come il caso non sia affatto un semplice omicidio. Per questo chiede la collaborazione del suo ex capo, Corso Bramard, e della collega Isa Mancini.

Tre personalità diverse, complicate e solitarie, ma complementari, che si trovano a fare i conti con gli abitanti del paese, gente chiusa e riservata come la valle che li circonda, e con i mille segreti legati alla costruzione della diga a monte.
Il piccolo borgo montano si contrappone a due città che fanno da sfondo alla vicenda: una Torino grigia e piovosa, che nasconde la sua bellezza e riflette lo stato d’animo cupo di Arcadipane, e una Roma luccicante di chiacchiere e lustrini, ingannevole e crudele con chi non è disposto ad accettare il ruolo imposto nello spettacolo della Capitale.
Lo stile sobrio e asciutto di Longo accompagna i paesaggi e, con un sapiente gioco di luci e ombre, svela o nasconde le infinite sfaccettature dei personaggi. La vita paga il sabato… e, anche se tardi, presenta sempre il conto.

Giuseppe Lupo ha spesso raccontato la modernità del secolo breve, il Novecento: da L’Americano di Celenne, ambientato ai tempi della Grande Guerra, a Tabacco Clan, in cui la vicenda dei protagonisti si conclude alla vigilia della pandemia. Gli anni che intercorrono tra questi due estremi sono anche lo sfondo di altri suoi testi (Gli anni del nostro incanto, Breve storia del mio silenzio, L’albero di stanze), sempre attenti documenti di un’epoca e dei suoi mutamenti.

In Tabacco Clan tutti, o quasi tutti, possiamo riconoscerci nei panni degli studenti di cui conosciamo solo i nomignoli: Pres, Vice Capellone, Alfio Segretario, Cardinale, Piercamuno… Sono ragazzi di diversa estrazione sociale e provenienza geografica che, per caso, si incontrano a Milano negli anni ’80 del disimpegno e della leggerezza, condividendo la vita nello stesso pensionato universitario. Per vincere la solitudine, su iniziativa del Pres, fondano il Tabacco Clan: il loro scopo è parlare, fumare sigari e scacciare il buio.

Il romanzo prende avvio circa quarant’anni dopo, in un albergo sul Lago Maggiore – il Grand Hotel Verbano di Stresa – dove il gruppo si ritrova per il matrimonio della figlia del Cardinale con il figlio di Piercamuno, l’11 gennaio 2020. Nel tempo trascorso ciascuno ha vissuto esperienze non sempre facili né felici, ma i legami non si sono spezzati: il gruppo ha continuato a sentirsi attraverso una chat, mantenendo intatta l’amicizia e la regola di non raccontarsi guai o dolori, ma ripetere sempre “Va tutto a meraviglia”, accompagnato dal gesto scaramantico del pollice alzato.

La voce narrante è quella del Piccolo Chimico, memoria storica del clan, capace di riannodare le microstorie personali e inserirle nella macrostoria di un paese in trasformazione. Rileggere le vicende di questi ragazzi, ormai adulti, suscita un’emozione ancora più intensa, perché in loro ritroviamo le nostre stesse traiettorie di vita.

Mano nella mano a passeggio, il momento più bello della giornata. All’improvviso un boato terribile, tutto diventa nero… poi solo polvere e silenzio… e la mano vuota. Il vuoto, l’assenza, la mancanza. Così inizia Mi limitavo ad amare te, un libro che illumina i danni collaterali delle guerre, concentrandosi sul conflitto scoppiato nella primavera del 1992 a Sarajevo, ma che in realtà riflette ciò che accade in ogni guerra, raccontando una storia potente e toccante.

Partendo da vicende reali, l’autrice crea personaggi profondi e complessi, ognuno con le proprie sfumature di sofferenza e speranza, riuscendo a trasmettere con maestria il senso di perdita e incertezza che accompagna chi vive in zone di conflitto. Al tempo stesso, offre uno sguardo intenso sulla resilienza dell’animo umano: nonostante la durezza delle vicende narrate, la sua scrittura dolce e delicata alleggerisce il peso del tema.

Il cuore del romanzo è l’infanzia mancata, un tema coinvolgente che ricorda l’importanza di non dimenticare le conseguenze devastanti delle guerre sulle vite innocenti. Ci sono figli che hanno perso le madri e madri costrette a prendere la dolorosa decisione di abbandonare i propri bambini pur di salvarli: sacrifici estremi che racchiudono il paradosso dell’amore in tempo di guerra.
In questa narrazione la morte resta sempre sullo sfondo, corre radente ai muri, ma non riesce a impedire agli esseri umani di amarsi, abbracciarsi, aiutarsi e, talvolta, tradirsi per sopravvivere. Mi limitavo ad amare te cattura dall’inizio alla fine, costringendo il lettore a riflettere sulle conseguenze della guerra, sulla forza dei legami familiari e sulla determinazione umana nel cercare ciò che è perduto. È una lettura che lascia un segno profondo, ma non toglie la speranza.

Recensioni

Pubblichiamo le recensioni ai volumi finalisti dell’edizione 2023, redatte dal gruppo dei soci-lettori – detti Ghost Readers – che selezionano i libri per l’Appello tra quelli giunti in finale ai maggiori premi letterari italiani.

Il gruppo è composto da Nella Baldi, Simona Baronchelli, Emanuela Gardenghi, Rosella Gerbi, Massimo Maffei e Anna Maria Migliarini.

“[…] lo amavo, l’ho incontrato, lui vuole che lo chiami e io rispondo alla chiamata, sì, ecco la vera vocazione, ecco finalmente il segno, il dono giusto per me. Alessandro ti vedo o ti immagino? Esisti? ” […]

“No, amarla mai, […] quella bruttona, quella stupida, quella che lo sanno tutti che ha i soldi sotto il materasso. […] io voglio i soldi e scappare, tu vuoi l’amore come l’hai visto nei filmetti e nei romanzetti […]

Centomilioni scritto tutto di seguito, sì, centomilioni, un sacco di soldi. Eccoli i risparmi della famiglia di Teresa, quelli che fanno gola al bell’Alessandro, allievo ripetente della scuola in cui insegna la protagonista del romanzo.

Teresa ha 47 anni e nulla sa della vita, al punto da scambiare la violenza per amore. Vive ancora in famiglia in una cittadina di provincia con un padre malato e una madre dispotica, logorroica e controllante. In mente non ha che un brusio mentre obbedisce alle indicazioni della madre tenendo insieme il suo mondo come può, seguendo tristi e rigidi rituali quotidiani che la salvano dall’andare in pezzi.

Solo 140 pagine per un lungo racconto dove la tensione narrativa resta alta fino alla fine ed i personaggi sono descritti magistralmente. La prosa dell’autrice è cruda ma ricercata e tagliente, in alcuni momenti – paradossalmente – addirittura umoristica. Con una scrittura spiazzante, feroce ed ironica la Cai rende esplosiva l’ineffabile bellezza della piattezza della vita, qualcuno vi riconoscerà un recente fatto di cronaca.

“Misterioso viaggio, a tappe dolorose, di creature avventurose, luminose e deformi, ripercorre il più importante evento della storia per credenti e non credenti. La rivisitazione in chiave drammatica di quanto di più sacro ci sia nella storia del Cristianesimo ha richiesto un grande coraggio e un forte coinvolgimento da parte dell’autore. Per i lettori le storie narrate diventano sempre più coinvolgenti, si fanno denuncia sociale, inchiesta antropologica e ricerca nel mistero profondo della vita e della morte.

Il romanzo si trasforma in una favola macabro/drammatica, come quelle che si raccontavano ai bambini, durante le veglie contadine, quando donne, uomini, giovani, anziani, prima di andare a letto si ritrovavano nelle stalle, per stare al caldo, ricordare, raccontare storie, lavorare. Così, come i vari personaggi del libro, ognuno faceva la sua parte e arricchiva la serata. I protagonisti dei dieci capitoli (da “Il bambino buono” a “L’uomo cattivo”) parlano dell’umanità illuminata dalla Nascita – annunciata dalle doglie e attesa dal creato – che avverte quanto sia incontrollabile e necessaria quella novità che nasce e vive nel dolore e non si può ignorare con tappi di cera messi alle orecchie per non essere tentati dalla pietà.
Riflettere sugli argomenti proposti dalla lettura può aiutare a vivere meglio i difficili attuali momenti della nostra storia. E se non avessimo negato, spergiurato, offeso, torturato e ucciso, nessuna profezia della Nascita e della Morte si sarebbe svelata e compiuta.

“Anche il suono dell’acqua somiglia all’ultima preghiera che esce dalla bocca di Lucia. A lei pensaci tu, Madonna mia. È innocente.”
L’ultimo pensiero di Lucia, nell’estremo gesto, è per lei, Maria Grazia, la figlia che l’Italia degli anni ‘60, soffocata da leggi medioevali, l’ha obbligata ad abbandonare. Lucia, madre di Maria Grazia, è costretta a subire umiliazioni e violenze da parte del marito, dal quale fugge con il suo vero amore, portando con sé la figlia piccola.

Dove non mi hai portata è una toccante autobiografia che esplora i motivi e le circostanze dell’abbandono dell’autrice quando aveva appena 8 mesi. Attraverso una ricerca accurata, la scrittrice si immerge nel passato, cercando prima risposte tra le persone che conoscevano i suoi genitori e nei luoghi dove Lucia aveva vissuto, amato, sperato di vivere una vita felice; poi analizzando documenti e articoli per poter inserire la vicenda nella storia dell’Italia di quell’epoca.

Maria Grazia Calandrone condivide questa storia intima in modo lucido, tagliente e talvolta poetico. Coinvolge emotivamente chi legge, guidandolo a riflettere sulla complessità delle relazioni familiari e delle decisioni prese in situazioni estreme. La sua scrittura è a volte pura poesia, a volte cinico e freddo racconto, e questo dualismo impegna profondamente il lettore, senza lasciargli scampo.
Alla fine, la storia ricostruita è una testimonianza di desiderio di conoscenza, mai di giudizio o accusa, e sembra portare sollievo e riscatto nei confronti della madre: “Scrivo questo libro perché mia madre diventi reale”. Così l’autrice può finalmente riprendere la sua vita, portando con sé una comprensione profonda delle sue origini e delle difficoltà che la sua famiglia ha dovuto affrontare.
Dove non mi hai portata è un’opera emotiva, intima e profondamente umana che getta luce su temi universali come l’amore, la famiglia, la perdita e la ricerca della propria identità.

“Da qui molti professori sono scappati dopo una settimana, lo sa?” Così l’ha accolta il bidello mentre l’accompagnava in classe il primo giorno. All’insegnante era già arrivata la cattiva fama della 5a, ma adesso ne è terrorizzata: ha paura di non farcela.
Ha accettato una supplenza annuale in una scuola di periferia, ma è una Roma che non è la sua, è un’altra città e lei la esplora camminando, perché camminare la aiuta a pensare. Il suo compito è insegnare l’inglese a ragazzi che non parlano nemmeno l’italiano e, per prima cosa, sa che deve costruire un ponte, un collegamento tra lei e i suoi allievi. Dopo i primi secondi in cui la osservano ignorandola, è con la lingua del cuore, il dialetto, che la PRESSORÈ riesce a farsi finalmente vedere ed ascoltare, fino a essere considerata come “una di loro”.

Dietro gli atteggiamenti spocchiosi, provocatori o semplicemente menefreghisti, i suoi ragazzi nascondono fragilità, insicurezze e la paura del domani. A un certo punto lei diventa il collante di queste esistenze difficili: non sono più ragazzi, ma non sono ancora adulti. Sono loro i veri protagonisti di questa storia: duri eppure sensibili, violenti e spietati, già feriti dalla vita, eppure così bisognosi di attenzioni, di qualcuno che li guardi negli occhi per chiedere “come stai?” e sappia ascoltare la risposta.

Questi ragazzi hanno trovato lei, un’insegnante colta, che ama la letteratura inglese e vorrebbe farla amare anche a loro. Ma lei fa di più: si porta il lavoro a casa, si lascia coinvolgere fino a diventare vulnerabile, perché prende la missione sul personale. Vuole salvarli tutti.

Gaja Cenciarelli racconta il difficile mondo della scuola dalla parte di chi è in prima linea, affrontando i problemi delle realtà più complesse, dove un insegnante può fare la differenza tra chi riesce a salvarsi e chi non ce la farà.

“[…] il Re della Memoria è la salvezza degli uomini, il modo per non impazzire. Quando uno di noi non riesce a liberarsi di un ricordo brutto, va dal Re della memoria e gli chiede gentilmente di caricarsi lui quel ricordo sulle spalle. Da quel giorno, se ti darà la sua benedizione, tu non ci penserai più.”

Massimo Cotto esordisce nell’affollato mondo del noir con il suo primo romanzo di genere. Torbido e ambiguo, nel corso della narrazione diventa romanzo psicologico: i protagonisti rivivono un dramma della loro infanzia che ha segnato per sempre le loro vite. A soccorrere e confortare i personaggi, e insieme il lettore, è la leggenda del Re della Memoria che, pregna di significato, concede speranza, allevia i ricordi negativi e assume un ruolo salvifico. Ci ricorda che a ognuno di noi è data la possibilità di generare il proprio futuro partendo dal presente, imparando a convivere con esso.

La narrazione alterna con maestria attimi di redenzione e salvezza a momenti bui e alla riapertura di vecchie ferite dolorose. La trama è intricata, il ritmo incalzante, la scrittura rapida e precisa nel descrivere ambienti e situazioni, i dialoghi serrati e mai ridondanti.
Durante la lettura si riflette sul rapporto tra genitori e figli, sulle dinamiche familiari che troppo spesso si ripetono nei rapporti di coppia, e sull’impatto che hanno nelle nostre vite, ripresentandosi sotto forma di traumi, ricordi e rimozioni.

Federica De Paolis ci trascina in uno dei drammi familiari più angoscianti: la perdita, o meglio lo smarrimento, di un bambino. L’autrice cattura l’attenzione dall’inizio alla fine senza concedere un attimo di respiro. Insieme a Viola e Paolo ci muoviamo vorticosamente sulla giostra di eventi concentrati in sei convulse ore uggiose, in un quartiere romano nato da grandi ambizioni poi disattese, destino comune a molti villaggi olimpici italiani. La narrazione sembra quasi rispettare le tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione: il tempo atmosferico e l’ambiente, grigi e privi di speranza, riflettono l’animo dei protagonisti e il loro rapporto, ormai logoro e segnato dagli eventi.

Un attimo, una distrazione fatale ma non casuale, frutto di altre distrazioni accumulate nel tempo. Distrazione è quella che ha allontanato Paolo e Viola. Distrazione è l’incidente terribile di Viola, da cui riemerge intatta nel corpo ma provata nella mente, costretta a difendersi creando un mondo virtuale in cui ricordi e persino sapori vengono cancellati, sostituiti da nuove realtà. Distrazione è l’allontanarsi di Paolo, soffocato dal lavoro, risucchiato nel mondo della corruzione, degli appalti e del potere. Distrazione come separazione, come progressivo allontanarsi da sé stessi e dagli altri.

Federica De Paolis esplora con profondità, ma senza appesantire, la psiche dei personaggi, affrontando temi complessi e universali. Il ritmo della narrazione segue l’incalzare degli eventi, travolgendo il lettore fino a un finale sorprendente e inaspettato.

Con il giallo La vita paga il sabato, Davide Longo ci prende per mano sin dalle prime pagine e ci lascia, alla fine del libro, con il desiderio intenso di continuare a seguire la vita dei suoi protagonisti.

In un piccolo paese di montagna viene ritrovato un cadavere in un’auto: troppe domande restano senza risposta, in un contesto delicato per il calibro dei personaggi coinvolti, simili a fili dell’alta tensione da maneggiare con cura. A investigare è il commissario Arcadipane, uomo di mezz’età segnato dal tempo e dalla vita, che ben presto comprende come il caso non sia affatto un semplice omicidio. Per questo chiede la collaborazione del suo ex capo, Corso Bramard, e della collega Isa Mancini.

Tre personalità diverse, complicate e solitarie, ma complementari, che si trovano a fare i conti con gli abitanti del paese, gente chiusa e riservata come la valle che li circonda, e con i mille segreti legati alla costruzione della diga a monte.
Il piccolo borgo montano si contrappone a due città che fanno da sfondo alla vicenda: una Torino grigia e piovosa, che nasconde la sua bellezza e riflette lo stato d’animo cupo di Arcadipane, e una Roma luccicante di chiacchiere e lustrini, ingannevole e crudele con chi non è disposto ad accettare il ruolo imposto nello spettacolo della Capitale.
Lo stile sobrio e asciutto di Longo accompagna i paesaggi e, con un sapiente gioco di luci e ombre, svela o nasconde le infinite sfaccettature dei personaggi. La vita paga il sabato… e, anche se tardi, presenta sempre il conto.

Giuseppe Lupo ha spesso raccontato la modernità del secolo breve, il Novecento: da L’Americano di Celenne, ambientato ai tempi della Grande Guerra, a Tabacco Clan, in cui la vicenda dei protagonisti si conclude alla vigilia della pandemia. Gli anni che intercorrono tra questi due estremi sono anche lo sfondo di altri suoi testi (Gli anni del nostro incanto, Breve storia del mio silenzio, L’albero di stanze), sempre attenti documenti di un’epoca e dei suoi mutamenti.

In Tabacco Clan tutti, o quasi tutti, possiamo riconoscerci nei panni degli studenti di cui conosciamo solo i nomignoli: Pres, Vice Capellone, Alfio Segretario, Cardinale, Piercamuno… Sono ragazzi di diversa estrazione sociale e provenienza geografica che, per caso, si incontrano a Milano negli anni ’80 del disimpegno e della leggerezza, condividendo la vita nello stesso pensionato universitario. Per vincere la solitudine, su iniziativa del Pres, fondano il Tabacco Clan: il loro scopo è parlare, fumare sigari e scacciare il buio.

Il romanzo prende avvio circa quarant’anni dopo, in un albergo sul Lago Maggiore – il Grand Hotel Verbano di Stresa – dove il gruppo si ritrova per il matrimonio della figlia del Cardinale con il figlio di Piercamuno, l’11 gennaio 2020. Nel tempo trascorso ciascuno ha vissuto esperienze non sempre facili né felici, ma i legami non si sono spezzati: il gruppo ha continuato a sentirsi attraverso una chat, mantenendo intatta l’amicizia e la regola di non raccontarsi guai o dolori, ma ripetere sempre “Va tutto a meraviglia”, accompagnato dal gesto scaramantico del pollice alzato.

La voce narrante è quella del Piccolo Chimico, memoria storica del clan, capace di riannodare le microstorie personali e inserirle nella macrostoria di un paese in trasformazione. Rileggere le vicende di questi ragazzi, ormai adulti, suscita un’emozione ancora più intensa, perché in loro ritroviamo le nostre stesse traiettorie di vita.

Mano nella mano a passeggio, il momento più bello della giornata. All’improvviso un boato terribile, tutto diventa nero… poi solo polvere e silenzio… e la mano vuota. Il vuoto, l’assenza, la mancanza. Così inizia Mi limitavo ad amare te, un libro che illumina i danni collaterali delle guerre, concentrandosi sul conflitto scoppiato nella primavera del 1992 a Sarajevo, ma che in realtà riflette ciò che accade in ogni guerra, raccontando una storia potente e toccante.

Partendo da vicende reali, l’autrice crea personaggi profondi e complessi, ognuno con le proprie sfumature di sofferenza e speranza, riuscendo a trasmettere con maestria il senso di perdita e incertezza che accompagna chi vive in zone di conflitto. Al tempo stesso, offre uno sguardo intenso sulla resilienza dell’animo umano: nonostante la durezza delle vicende narrate, la sua scrittura dolce e delicata alleggerisce il peso del tema.

Il cuore del romanzo è l’infanzia mancata, un tema coinvolgente che ricorda l’importanza di non dimenticare le conseguenze devastanti delle guerre sulle vite innocenti. Ci sono figli che hanno perso le madri e madri costrette a prendere la dolorosa decisione di abbandonare i propri bambini pur di salvarli: sacrifici estremi che racchiudono il paradosso dell’amore in tempo di guerra.
In questa narrazione la morte resta sempre sullo sfondo, corre radente ai muri, ma non riesce a impedire agli esseri umani di amarsi, abbracciarsi, aiutarsi e, talvolta, tradirsi per sopravvivere. Mi limitavo ad amare te cattura dall’inizio alla fine, costringendo il lettore a riflettere sulle conseguenze della guerra, sulla forza dei legami familiari e sulla determinazione umana nel cercare ciò che è perduto. È una lettura che lascia un segno profondo, ma non toglie la speranza.

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